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Maggior rischio di asma per il feto esposto al fumo paterno

Se, durante i nove mesi di gravidanza, il feto viene esposto al fumo passivo di tabacco da parte del padre, il bambino nato potrà avere maggiori possibilità di essere affetto da asma entro i primi sei anni di vita: questo è ciò che emerge da un importante studio realizzato sui cambiamenti chimici nel DNA.

Il dottor Kuender Yang, del Nationale Defence Medical Center di Taipei, Taiwan, e i suoi ricercatori hanno analizzato 756 bambini fino ai sei anni. Uno su quattro è cresciuto nel grembo materno con accanto un padre fumatore e solo tre madri del gruppo campione erano fumatrici. Il dottor Yang ha affermato che i bambini che hanno subito un’esposizione prenatale al fumo paterno di più di 20 sigarette al giorno hanno mostrato un rischio considerevolmente più elevato di sviluppare l’asma rispetto ai bambini che non sono stati soggetti a tale esposizione.

Dall’osservazione è risultato che il 31% dei bambini con il padre che ha fumato tabacco durante la gestazione ha sviluppato asma, mentre solo il 23% dei bambini non esposti al fumo paterno ne sono stati colpiti. Inoltre, si è evidenziato che l’asma era più presente nei figli di padri grandi fumatori, infatti, circa il 35% dei bimbi con padri grandi fumatori hanno avuto l’asma, rispetto al 25% di quelli con padri che fumavano poco e ancora rispetto al 23% di quelli con padri che non avevano mai fumato durante la gravidanza.

I ricercatori hanno, inoltre, prelevato dei campioni di DNA dal sangue del cordone ombelicale dei bambini appena nati e attraverso un’analisi hanno scoperto che più i padri avevano fumato durante la gestazione e più era presente una modificazione del DNA su tre geni che hanno un ruolo specifico nella funzionalità del sistema immunitario e nello sviluppo dell’asma. Lo studio ha destato molto interesse perché, anche se è noto da tempo il legame fra l’aumento dell’asma nei bambini e l’esposizione al fumo in gravidanza, ha messo in evidenza che ad essere nocivo per il feto nel grembo materno non è solo il fumo della madre, ma anche quello del padre. 

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Minor rischio di diabete con una vita sana

Per le donne che hanno sofferto di diabete gestazionale durante la gravidanza riuscire a seguire entro il sesto mese dal parto uno stile di vita sano, basato su una corretta alimentazione e su un costante esercizio fisico, è un valido aiuto per ridurre il rischio di diabete che potrebbe presentarsi in futuro.

Questi i risultati di uno studio che è stato pubblicato sulla rivista medico-scientifica Frontiers in Endocrinology e che è stato coordinato alla dottoressa Maria Inês Schmidt, del programma post-laurea in Epidemiologia all’Universidade Federal do Rio Grande do Sul di Porto Alegre in Brasile. I risultati hanno fatto emergere che la conduzione di un corretto stile di vita dopo il parto può portare dei benefici alle donne con un pregresso diabete gestazionale. Gli autori della ricerca hanno affermato nella pubblicazione che il diabete di tipo 2 è in aumento fra i giovani e i controlli che vengono effettuati durante la gravidanza per verificare la presenza della variante gestazionale rappresentano un’ottima opportunità per la prevenzione perché il rischio di essere soggette al diabete e alle sue eventuali complicazioni negli anni futuri può essere attenuato da un sano stile di vita e di conseguenza dalla successiva mancanza di un aumento di peso

Con l’obiettivo di verificare l’efficacia degli interventi che vengono somministrati alle donne in cui è stato riscontrato il diabete gestazionale, i ricercatori hanno analizzato gli studi trattati su questo argomento che sono stati pubblicati e registrati negli archivi biomedici più rilevanti fino al mese di maggio del 2018.

La dottoressa Schmidt ha spiegato che su 1.895 articoli identificati dai ricercatori, ne sono stati selezionati 15 riguardanti l’incidenza del diabete e le variazioni dei valori di glicemia a digiuno o dopo carico, di questi solo uno trattava l’allattamento al seno.

È emerso che gli studi che avevano esaminato l’incidenza di un sano stile di vita intrapreso entro i sei mesi precedenti la data del parto indicavano una riduzione intorno al 25% del rischio di diabete per gli anni successivi.

L’autrice ha concluso dichiarando che – nonostante l’effetto benefico sia inferiore rispetto a quello emerso dagli studi classici sulla conduzione dello stile di vita nella prevenzione del diabete tra soggetti più anziani – i risultati ottenuti dai dati della ricerca evidenziano che una dieta corretta e l’esercizio fisico costante nelle donne che durante la gravidanza hanno avuto il diabete gestazionale potrebbero avere un potenziale significato clinico per gli effetti positivi che producono sulla prevenzione del diabete. Infine la dottoressa Schmidt e i suoi collaboratori auspicano nuovi studi per definire i programmi alimentari e di attività fisica per queste donne e per documentarne l’efficacia.

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Colestasi gravidica: un esame del sangue per accertarne i rischi

La rivista scientifica inglese The Lancet ha recentemente pubblicato un nuovo studio sulla colestasi intraepatica della gravidanza. La colestasi gravidica è una patologia epatica che può insorgere durante la gravidanza, soprattutto durante il terzo trimestre, ma può presentarsi in qualsiasi periodo della gestazione. Il sintomo principale si manifesta con un prurito fastidioso localizzato principalmente nelle zone dei palmi delle mani e delle piante dei piedi, ma può estendersi ad altre parti del corpo.

I risultati della ricerca hanno evidenziato che le donne con gravidanze singole soggette a colestasi intraepatica della gravidanza e con una concentrazione di acido biliare nel sangue di almeno 100 μmol/L hanno un rischio più elevato di partorire un bimbo senza vita.

 

I ricercatori auspicano che questa scoperta possa essere un valido aiuto per i medici nell’identificazione di quella bassa percentuale di donne che presentano un elevato rischio di colestasi gravidica, in modo tale da prevenire la morte intrauterina.

 

La dottoressa Caroline Ovadia, del King’s College di Londra, è la principale autrice dello studio.  La ricerca si è basata sulla valutazione di 109 studi, i risultati hanno messo in evidenza che la probabilità di partorire un bambino senza vita si è riscontrata in 45 casi su 4.936 donne affette da colestasi intraepatica della gravidanza (pari allo 0,83%) rispetto a 519 su 163.947 gravidanze di controllo (corrispondente allo 0,32%). Nelle gravidanze singole è emerso che la mortalità fetale è associabile alla concentrazione dell’acido biliare totale, ma non al valore dell’alanina aminotransferasi. Infatti, la mortalità fetale si è verificata in 3 casi su 2.310 di donne con colestasi intraepatica della gravidanza con con colestasi intraepatica della gravidanza con acidi biliari totali nel siero inferiori a 40 μmol/L, in 4 casi su 1.412 casi di donne con acidi biliari totali di 40-99 μmol/L e in 18 su 524 casi con valori di acidi biliari di 100 μmol/L o più. 

Gli autori hanno specificato che la maggior parte delle donne con colestasi intraepatica in gravidanza presenta concentrazioni di acidi biliari al di sotto di questo valore e per questa ragione è possibile che il rischio di morte fetale sia da paragonarsi a quello delle donne in gravidanza nella popolazione generale, confermando che è molto importante che i test di valutazione dell’acido biliare vengano eseguiti in maniera regolare, come da prescrizioni mediche, fino al momento del parto.

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Età e precedenti gravidanze condizionano il rischio di aborto

Uno  studio pubblicato sulla rivista di ricerca medica British Medical Journal, ha messo in evidenza come per una donna in gravidanza il rischio di avere un aborto spontaneo sia strettamente legato alla sua età e sia molto più elevato dopo aver avuto aborti precedenti. Il rischio, inoltre, aumenta in maniera considerevole dopo il verificarsi di complicazioni della gestazione.

I ricercatori hanno condotto questo studio per avere una stima sul numero di aborti che avvengono nelle donne in attesa norvegesi e per dare una valutazione sulle associazioni del rischio con: l’età della donna, la storia della gestazione e le gravidanze precedenti. Per svolgere questa ricerca hanno analizzato i dati del Medical Birth Register of Norway, del Norwegian Patient Register e il registro degli aborti indotti. I dati rilevati hanno coinvolto tutte le donne in attesa negli anni compresi tra il 2009 e il 2013, per un totale di 421.201 gravidanze.

I fautori dello studio hanno impostato la ricerca dividendo i dati in tre categorie e analizzandoli: interruzione della gravidanza fra le 6 e le 20 settimane, la morte fetale prima della 20° settimana di gestazione con peso del feto inferiore ai 500 grammi e la morte fetale avvenuta dalla 20° settimana con peso del feto dai 500 grammi.

L’analisi ha messo in evidenza che il livello più basso di rischio di aborto spontaneo è avvenuto nelle donne in attesa con età compresa fra i 25 e i 29 anni. Dall’età di 30 anni in poi il rischio subisce un rapido aumento che arriva a raggiungere il 53% ai 45 anni di età della gestante. Nelle future madri con età inferiore ai 20 anni, il rischio è stato del 15,8%. In riferimento alle precedenti gravidanze, è stato osservato che il rischio di aborto spontaneo è stato maggiore se in precedenza la donna aveva avuto altri aborti e sempre più alto in rapporto al numero di aborti consecutivi. Il rischio è stato in leggero aumento se la precedente gravidanza si era conclusa con un parto prematuro o con

taglio cesareo o se la madre aveva sofferto di diabete gestazionale. Un altro dato rilevato è che se le donne in gravidanza erano nate piccole per la loro età gestazionale, il rischio è stato lievemente più alto.

Gli esperti hanno affermato che l’associazione fra il rischio di aborto spontaneo e le complicazioni avvenute nelle precedenti gravidanze indica la presenza di fattori causali che aumentano le possibilità del verificarsi di entrambi gli eventi. I ricercatori hanno sottolineato che il rischio cambia notevolmente in base all’età della donna in gravidanza, inoltre, mostra un forte schema di recidiva ed è più alto dopo alcuni esiti negativi della gravidanza.

La dottoressa Siri Håberg, autrice senior di questo studio e direttrice del Norwegian Institute of Public Health di Oslo, in Norvegia, ha spiegato che nuovi studi più mirati su queste associazioni potrebbero portare a nuove ed importanti intuizioni sulle cause condivise tra complicazioni della gravidanza e aborto.

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Ossitocina alta, più rischi di depressione post partum

Alla Northwestern University Feinberg School of Medicine di Chicago negli Stati Uniti, si è svolto uno studio pilota su un campione composto da una selezione di 66 donne in gravidanza che godevano di buona salute e non erano depresse. È emersa l’ipotesi che l’ossitocina possa essere considerata in futuro un biomarcatore della depressione che colpisce molte neomamme dopo il parto. La concentrazione di ossitocina è stata misurata nel terzo trimestre di gravidanza e i sintomi depressivi sono stati verificati a sei settimane dalla data del parto.

L’ossitocina è un ormone che viene prodotto dall’ipotalamo e che svolge un’azione sull’utero e sul seno favorendo il travaglio e l’allattamento generando delle contrazioni attraverso delle cellule muscolari lisce che si trovano nella parete uterina e intorno ai capezzoli.

La dottoressa Suena Massey, professore associato di psichiatria e scienze comportamentali alla Northwestern e coautrice dell’articolo pubblicato su Archives of Women’s Mental Health, ha spiegato che questo studio non ha portato a dei risultati definitivi, ma ha aperto la strada giusta per arrivarci. Infatti, ha raccontato la professoressa Massay che ha svolto lo studio insieme ai suoi colleghi, il legame fra gli elevati livelli di ossitocina e i sintomi depressivi ha sorpreso addirittura anche ricercatori perché si aspettavano dellei concentrazioni più basse. Già ricerche precedenti avevano evidenziato che il recettore per l’ossitocina poteva essere modificato da una pregressa storia depressiva che lo avrebbe reso meno efficiente.

I risultati hanno dimostrato chiaramente che le neomamme che hanno sofferto di depressione prima della gravidanza e negli ultimi tre mesi di gestazione hanno avuto livelli di ossitocina alti e hanno sviluppato importanti sintomi depressivi dopo la nascita del figlio. I sintomi più frequenti sono stati: insonnia, ansia, dolori diffusi, cefalea, astenia, perdita di peso e senso di tristezza.

Gli autori della ricerca mettono in risalto un altro dato molto importante: l’ossitocina, oltre a quanto finora evidenziato, è in grado di regolare anche i comportamenti sociali, sessuali e materni creando delle interferenze nel modo in cui vengono percepiti lo stress e l’ansia.

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Monitoraggio della pressione in gravidanza anche a casa

Le future mamme in dolce attesa che soffrono di ipertensione possono con tranquillità e sicurezza monitorare la loro pressione sanguigna acasa propria, senza bisogno di recarsi in ospedale o nell’ambulatorio del medico.

In questo modo si riducono lo stress e i vari problemi causati dall’organizzazione dello spostamento. La conferma dell’efficacia di questa procedura deriva da un nuovo studio che è stato pubblicato su Ultrasound in Obstetrics & Gynecology. I ricercatori, per determinare la possibilità da parte di donne in gravidanza, di monitorare autonomamente a casa loro la pressione senza andare incontro a nuovi rischi, hanno selezionato delle donne in attesa a cui era stata diagnosticata l’ipertensione, ma nessun altro problema di salute.

A 108 è stato insegnato come misurare e monitorare correttamente la pressione sanguigna attraverso l’uso di uncomune monitor commerciale. A 29 di loro hanno consegnato un’app per smartphone che ha registrato le loro misurazioni e poi ha mandato i dati direttamente ad un computer dell’ospedale. Alle restanti 79 è stato chiesto solamente di prendere nota dei valori della pressione. A tutte loro sono state date istruzioni su quando sarebbe stato necessario recarsi in ospedale sulla base della lettura della misurazione della pressione o ai potenziali sintomi di pre-eclampsia.

Infine, sono state prese in considerazione altre 58 donne incinte come gruppo di controllo e per questo sottoposte al classico monitoraggio dal medico. Gli studiosi hanno seguito l’intero gruppo di gestanti per la durata di 5-9 settimane nel corso della gravidanza e, di conseguenza, hanno valutato alcuni esiti della gestazione, come ad esempio: la nascita pretermine, il parto con taglio cesareo, il ricovero del bambino in unità neonatale e incidenza di complicazioni collegate all’ipertensione.

I risultati hanno messo in evidenza che non c’era alcuna differenza nell’incidenza di esiti negativi riguardanti le madri, i feti o i neonati tra le donne che durante la gravidanza hanno monitorato la pressione del sangue a casa e quelle che l’hanno controllata in modo tradizionale dal medico e che il numero medio di visite a cui si sono sottoposte le donne è stato della metà nel gruppo di intervento.

La dottoressa Asma Khalil, del St. George’s University Hospitals NHS Foundation Trust di Londra e principale autrice di questo lavoro, ha dichiarato che ormai è il momento di fare uso delle moderne tecnologie per migliorare il modo in cui i medici si prendono cura delle donne in gravidanza. Inoltre ha specificato che il monitoraggio dell’ipertensione durante i mesi di gravidanza svolto nel domicilio delle pazienti è risultato molto popolare e potrebbe essere sicuro e portare anche ad una riduzione dei costi.

 L’equipe dei ricercatori ha precisato che è necessario proseguire con ulteriori e approfonditi studi per stabilire la sicurezza del metodo per le complicazioni rare della gravidanza e per le differenti modalità in cui deve essere attuato nei diversi ambiti sanitari.

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Gravidanza: vero o falso?

Le informazioni che circolano sul mondo delle donne in gravidanza sono molte, distorte e spesso creano confusione, per questo tre ginecologhe californiane hanno pubblicato una guida in cui hanno chiarito, su base scientifica e clinica in ostetricia, cosa è vero e cosa è falso.

È assolutamente FALSO che in gravidanza le future mamme devono mangiare per due. È sufficiente aggiungere un apporto calorico di 300 calorie nella propria dieta quotidiana per passare al feto tutto ciò di cui ha bisogno a livello nutrizionale. Infatti è FALSO pensare che un bambino più grande nella pancia della mamma sia più sano, potrebbe invece essere soggetto a diabete e/o a obesità. È VERO che l’alimentazione deve essere sana ed equilibrata ed è meglio evitare alimenti conteneti zuccheri aggiunti, alcol e troppo ricchi di sale. È FALSO che la birra aiuta la neomamma ad avere più latte, come è VERO che il salmone fa molto bene sia alla futura mamma che al nascituro perché è ricco di omega-3.  Un grande FALSO consiste nell’evitare l’attività sessuale durante la gravidanza perché potrebbe nuocere al nascituro. Anzi, i ginecologi invitano la coppia a dare attenzione ai momenti di intimità per il benessere della donna e della coppia stessa.Per quanto riguarda il feto, è FALSO che il sesso del bambino si possa capire dalla posizione dell’utero, dalla forma della pancia della mamma o dalla linea che si forma sotto l’ombelico. È altrettanto FALSO il concetto che l’aver assunto la pillola contraccettiva sia causa di difetti congeniti o di infertilità nel nascituroVERO che la donna in gravidanza deve evitare sia il caldo eccessivo sia i bagni troppo caldi, come pure le saune e le vasche idromassaggio.

È FALSO il messaggio di non prendere l’aereo nel primo e nell’ultimo trimestre di gravidanza, poiché stare in una cabina pressurizzata non è rischioso per il bambino. Invece è VERO che spesso le compagnie aeree non accettano a bordo le donne al termine della gestazione perché il viaggio sarebbe a rischio di deviazione di rotta per atterraggio di emergenza in caso di anticipo del parto.

È FALSO il detto che non bisogna accarezzare gli animali in gravidanza perché potrebbe essere pericoloso, soprattutto i gatti. È VERO che bisogna stare molto attente a non toccare gli escrementi dei gatti per il non incorrere nella toxoplasmosi se non si è immuni. È FALSO che camminare velocizza il parto, ma è VERO che farlo durante la gravidanza è salutare. È FALSO pensare che quando si rompono le acque il parto arriverà subito dopo, la maggior parte delle donne inizia il travaglio nell’arco delle 24 ore successive, quindi hanno il tempo di prepararsi per il lieto evento e di raggiungere comodamente l’ospedale che hanno scelto per la nascita del loro bambino.

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Ancora troppi i parti cesarei nel mondo

I parti cesarei nel mondo sono ancora troppi e a volte non giustificati. Nel 60% degli Stati si ricorre in maniera eccessiva a questo intervento chirurgico per il parto, mentre nel 25% dei paesi lo si pratica ancora troppo poco anche di fronte a casi in cui l’uso sarebbe assolutamente necessario.

Questi i numeri di una ricerca pubblicata da The Lancet, da cui risulta inoltre che in almeno 15 paesi più del 40% dei neonati vengono fatti nascere col parto cesareo.

La Repubblica Dominicana ha il numero più elevato di questi interventi che arrivano fino al 58,1%. Le percentuali sono molto alte se si tiene in considerazione che gli esperti valutano che solo il 10/15% dei parti richiede la pratica del cesareo per complicazioni come sanguinamento, distress fetale, ipertensione o posizione anomala del neonato.

I luoghi dove in cui si ricorre al cesareo in modo eccessivo sono: Nord America, Europa occidentale, America Latina e Caraibi.

Marleen Temmerman, esperta della Ghent University in Belgio e della Aga Khan University in Kenya e coautrice dello studio, ha affermato che il rilevante aumento del numero di parti cesarei, soprattutto negli ambienti più ricchi per motivi non medici, desta preoccupazioni per i rischi che corrono le donne e i bambini.

Gli autori dello studio evidenziano che i professionisti sanitari debbano comprendere e trasmettere  in maniera esaustiva alle future mamme i seri rischi che sono associati a questo intervento e lo utilizzino solo in caso di reale necessità. Infatti i parti cesarei hanno un decorso più complicato per la madre,e cui conseguenze possono essere anche molto rilevanti in caso di successiva gravidanza.

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Come decidere tra villocentesi o amniocentesi?

Entrambi i test possono fornire indicazioni su eventuali anomalie genetiche o cromosomiche del feto.

La villocentesi può essere eseguita prima, ma d’altra parte si potrebbe voler aspettare i risultati di rilevamenti compiuti nel secondo trimestre della gravidanza.

Se si decide di aspettare, l’amniocentesi rimane l’unica opzione percorribile.

La villocentesi ha un rischio di aborto spontaneo leggermente maggiore dell’amniocentesi.

In ogni caso, prima di prendere una decisione si consiglia di parlare in modo approfondito sia con il proprio medico che con il proprio partner.

Utile potrebbe essere anche considerare la disponibilità di test di screening del DNA fetale non invasivi e sicuri per mamma e bambino, sempre dietro la guida del proprio medico.

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Amniocentesi

Un altro esame diagnostico considerato invasivo è l’amniocentesi.

L’amniocentesi è, infatti, un test prenatale in cui una piccola quantità di liquido amniotico viene rimossa dalla membrana che circonda il feto per verificare eventuali disturbi genetici del futuro bambino. Durante la gravidanza il feto è circondato dal liquido amniotico, una sostanza simile all’acqua che contiene cellule fetali e altre sostanze che forniscono informazioni importanti sulla salute del feto.

La procedura di solito è prevista tra la 15° e la 18° settimana della gravidanza.

Che cosa può rilevare una amniocentesi?

Questo tipo di esame è in grado di diagnosticare:

  • sindrome di Down
  • anemia falciforme
  • fibrosi cistica
  • distrofia muscolare
  • difetti del tubo neurale (cervello e colonna vertebrale non si sviluppano correttamente)
  • il sesso del feto

L’amniocentesi presenta piccoli rischi sia per la madre sia per il feto, il test prenatale è generalmente consigliato solo a donne che hanno un significativo rischio di malattie genetiche.

La precisione dell’amniocentesi è di circa il 99,4%.

Amniocentesi: ecco cosa aspettarsi

Sotto la guida ecografica, un ago sottile è inserito nell’utero attraverso l’addome e raggiunge il sacco amniotico, dove viene rimosso un piccolo campione di liquido amniotico.

Il fluido viene quindi inviato a un laboratorio per le analisi.

Dopo un’amniocentesi, si consiglia di evitare attività faticose e rapporti sessuali almeno per un giorno. Poi è possibile riprendere tutte le normali attività quotidiane. I risultati dell’amniocentesi sono generalmente disponibili entro 2-3 settimane dall’esame

Amniocentesi e rischi

L’amniocentesi può comportare alcuni rischi, tra cui:

  • perdita di liquido amniotico: occorrenza rara e la quantità di fluido perso è minima;
  • aborto spontaneo: il rischio è minimo (circa 0,6%) ma aumenta nelle prime 15 settimane;
  • lesioni da ago: il feto, muovendosi, potrebbe ferirsi con l’ago utilizzato durante il test;
  • contaminazione del sangue:alcune cellule del sangue del feto possono venire a contatto con cellule sanguigne materne; ciò comporta una contaminazione che può provocare la produzione di anticorpi Rh che attraverso la placenta danneggiano i globuli rossi del feto;
  • infezioni:raramente può innescarsi un’infezione uterina;
  • trasmissione di infezioni: se la madre soffre di epatite C o HIV/AIDS, l’infezione potrebbe traferirsi anche al feto durante il test;
  • anomalo sanguinamento vaginale;
  • febbre;
  • dolori addominali.

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